Il 26 giugno i Pearl Jam hanno suonato allo Stadio Olimpico di Roma, concludendo così la tappa italiana del loro tour europeo 2018 dopo i concerti di Milano (22 giugno) e Padova (24 giugno). Il gruppo mancava da Roma da ben 22 anni – in particolare da quando, nel 1996, avevano presentato il loro album No Code al pubblico romano nella acusticamente-non-proprio-splendida cornice del Palalottomatica. Era la prima volta per loro allo stadio Olimpico – come il cantante Eddie Vedder ha ricordato nel corso della serata; c’era stato però un altro stadio romano nel loro passato, lo Stadio Flaminio, dove i Pearl Jam si erano esibiti insieme agli inglesi An Emotional Fish come band di supporto del concerto romano degli U2 nel tour promozionale di Acthung Baby, nel lontano 1993.
All’epoca, il nome dei Pearl Jam era indissolubilmente legato ad un luogo specifico, la città di Seattle, culla delle principali band che all’inizio degli anni ‘90 diedero vita al movimento del grunge (l’unica eccezione è rappresentata dai Nirvana, formatisi comunque nella vicina Aberdeen). Oltre ai Pearl Jam, sono nati a Seattle, tra gli altri, Mother Love Bone, Alice in Chains, Soundgarden. Cresciuti musicalmente nella stessa città e negli stessi anni, molti di questi gruppi hanno conosciuto sovrapposizioni o commistioni: Jeff Ament e Stone Gossard dei Pearl Jam ad esempio suonavano nei Mother Love Bone, prima della morte per overdose del cantante di questi ultimi Andrew Wood; gli stessi Ament e Gossard erano nella formazione dei Temple of the Dog, che includeva anche altri membri dei Pearl Jam e dei Soundgarden – incluse le due voci di Chris Cornell e Eddie Vedder, che è sempre da brividi ascoltare qui. La fama di Seattle come culla del grunge era talmente forte all’inizio degli anni ’90 da spingere il regista Cameron Crowe ad ambientarvi il suo film “Singles”, dove Vedder, Cornell, Ament e Gossard compaiono anche come comparse. Se il film è sicuramente dimenticabile, non altrettanto può dirsi della colonna sonora, che include, tra le altre, perle come State of Love and Trust dei Peal Jam, Would degli Alice in Chains e Seasons di Chris Cornell (se vi interessa è stata rimasterizzata e riprodotta nel 2017 in versione deluxe e potete acquistarla qui).
Di tutti questi gruppi i Pearl Jam sono sicuramente quelli con la carriera più longeva. Nonostante alcune esperienze soliste del cantante Eddie Vedder (la più significativa rappresentata dalla colonna sonora di Into the Wild, nel 2007) il gruppo è sempre rimasto attivo, sia in studio sia dal vivo. Alcuni hanno messo in evidenza l’evoluzione dei Pearl Jam da gruppo di nicchia (o in alcuni casi addirittura uncool) a leggenda del rock contemporaneo. Ma la loro crescita è anche coincisa con un passaggio di “connotazione geografica”, che ha cambiato scala. Se infatti, con il passare degli anni, il legame con Seattle e con la scena grunge è andato sbiadendo, si è parallelamente rafforzato il legame – e l’identificazione – con gli Stati Uniti nel loro complesso. Non è chiaro se sia colpa delle camicie a scacchi di Eddie Vedder, dello stile della sua ironia , del modo della band di fare rock, del patrimonio di musica (americana) che valorizzano attraversi numerose cover, dell’esplicito impegno politico nella scena statunitense, o di altro ancora, ma i Pearl Jam sono diventati uno di quei gruppi americani per antonomasia. Tanto per rimanere in tema, nel 2005, in un sondaggio di USA Today, il gruppo è stato votato come la più grande band americana di tutti i tempi.
Il ritorno a Roma del gruppo è stato una festa: per il pubblico, emozionato e partecipe; e anche per la band, che si è spesa con grandissima generosità per quasi tre ore e mezzo di concerto, mischiando pezzi vecchi e nuovi, cover, e discorsi che Eddie Vedder provava a leggere in italiano da un foglietto spiegazzato tradotto chissà da chi. Qualcuno deve avergli spiegato che in Italia non andiamo fortissimo in inglese, e quindi si è organizzato per essere sicuro di essere capito. Questo bisogno di comunicare, con le parole ma ancora di più con la musica, è stato il motore di una notte in cui i 22 anni di assenza dai palchi romani sono stati colmati da un diluvio di emozioni, che hanno travolto i molti (ex) ragazzi e ragazze italiani cresciuti con i loro testi e i loro suoni nelle orecchie.
Coerentemente con il loro stile, i Pearl Jam hanno voluto sfruttare questa occasione anche per lanciare un messaggio politico. Già nella data londinese di questo tour, lo scorso 18 giugno, Eddie Vedder aveva preso una chiara posizione contro le politiche di confine del governo Trump, affermando di non riconoscere più il suo paese. A Roma (non a caso altra capitale politica…), il cantante ha ribadito il suo dolore e sconcerto per la situazione alle frontiere del suo paese, trasferendolo sulle note di Imagine a quella delle nostre, attraverso la silenziosa proiezione del logo “Aprite i porti – Save is not a crime” sul maxischermo del palco.
In questo modo, i Pearl Jam hanno tracciato una immaginaria linea di collegamento tra la chiusura delle frontiere operata da Trump e quella promessa dal nostro nuovo governo, schierandosi nettamente a favore della mobilità delle persone e del mantenimento della nostra umanità.
Lo stesso concetto è stato ribadito a fine concerto: a differenza di altre date del tour europeo, dove la chiusura era stata affidata alla malinconica Indifference, il concerto romano si è chiuso – dopo una incredibile versione di Alive – con la cover di Neil Young “Rockin in The Free world”. Una canzone fortemente politica e un inno universale alla costruzione di un mondo libero. Un invito a prendere posizione per il mondo che vogliamo, in ogni parte del mondo, e soprattutto in questa parte di mondo occidentale, in cui continuiamo a dare per scontato tutto quello che ci è concesso (incluso sentirci a casa con parole e note che vengono dall’altra parte dell’Atlantico) dimenticandoci la responsabilità di immaginare che un altro mondo è possibile…e magari incominciare a costruirlo.