Partiamo con un pizzico di onestà, per quanto mi riguarda, il film di Luca Guadagnino “Call me by your name”, candidato agli Oscar 2018, avrebbe dovuto vincere: miglior film, migliore attore protagonista, migliore colonna sonora, palma d’oro a Cannes, festival di Sanremo, elezioni in Italia e chi più ne ha più ne metta. Ma non è questo il luogo adatto alle recensioni, quindi soffermiamoci sugli aspetti più attinenti a questo spazio di riflessione.

E’ opinione diffusa, e da tempo discussa nell’ambito della Cultural Geography, che i film tendano sempre di più ad essere ambientati in contesti benestanti dando ampio spazio ad una rappresentazione ideale delle società contemporanee, evitando una seria riflessione sui disagi e sull’esclusione sempre più pressante di intere classi sociali.

A questo proposito mi è capitato di discutere con alcuni colleghi geografi, i quali hanno sottolineato come anche nel film di Guadagnino sia possibile notare questo trend.

Tuttavia, se da una parte concordo con l’alta incidenza di film, soprattutto americani, ambientati in contesti facoltosi, dall’altra credo anche che, per evitare il “politically correct ad ogni costo”, non tutti i registi debbano occuparsi ugualmente di tutti i contesti sociali e che sia anche legittimo che ognuno tratti gli argomenti e gli ambienti che ritiene di saper trasporre e raccontare meglio. Nello specifico, non credo che su questo punto se ne possa fare una colpa a Guadagnino. In primo luogo perché CBYN è tratto da un libro, quindi cambiare il contesto in cui si svolge la storia avrebbe voluto dire snaturare il libro. In secondo luogo perché ritengo che nel film il punto non sia la beatificazione della ricchezza o del lusso, quanto piuttosto l’accento sia posto sulla differenza che possono fare l’apertura mentale e la sensibilità nel generare benessere sociale.

Guadagnino, infatti, fin dalle prime scene e fino alle ultime (si pensi al monologo del padre al figlio) ci mostra come le relazioni umane potrebbero essere più semplici qualora si permettesse all’essere più intimo di ognuno di noi di emergere al di là degli stereotipi e delle costrizioni sociali con conseguenti rapporti più sereni e rispettosi tra gli individui, e nello specifico tra genitori e figli.

A mio avviso, per trasmettere questo tipo di messaggio, Guadagnino più che affidarsi al luogo, scegli di affidarsi al tempo. Il luogo in cui la storia si svolge non rileva ai fini narrativi, tanto che all’inizio del film l’unica, chiara, indicazione che viene data allo spettatore è “da qualche parte in Italia”. Al contrario il riferimento temporale è preciso e ricorrente in una miriade di elementi magistralmente disseminati: dall’abbigliamento dei personaggi, alla musica, ai riferimenti politici. A mio avviso, la scelta di prediligere il tempo allo spazio nasce dall’esigenza del regista di evitare che l’elemento territoriale- e nello specifico, il Nord Italia e la provincia di Crema- possa generare una sorta di involontario collegamento tra territorio e benessere economico. Al contrario, per rinforzare il messaggio, Guadagnino si affida alla scelta di un periodo storico cruciale nella storia d’Italia per rimarcare il passaggio tra un’epoca e un’altra, appunto, di apertura.

In un contesto come quello raccontato- e riadattato dal 1987 al 1983 secondo le esigenze del regista- il punto non è quanto la famiglia sia ricca, ma piuttosto quanto sia aperta. Il riferimento non appare solo in relazione al rapporto con il figlio; il film inizia con una scena di benvenuto, un autentico gesto di apertura del Professore al giovane studente ma è evidente anche nel modo in cui i coniugi Perlman si approcciano, per esempio, a questioni politiche circa le affermazioni degli amici sul pentapartito.

Dunque, in un ambiente caratterizzato dalla spiccata sensibilità e comprensione verso l’altro, il figlio adolescente può vivere la sua crescita personale e la propria scoperta sessuale con serenità, andando ben oltre la mera discussione sul proprio orientamento sessuale. Il contesto familiare permette al giovane Elio di sperimentare, conoscersi e vivere le proprie pulsazioni senza vergogna dei propri sentimenti e senza paura di essere giudicato e rifiutato dai suoi affetti più cari. La conseguenza è che il protagonista del film è un adolescente libero che nel corso dell’estate esplora la propria crescita senza cadere nella categorizzazione del personaggio in base all’identità sessuale. Il risultato è dirompente poiché come nessuno giudica Elio nel film, in egual misura, anche lo spettatore non si pone in una posizione giudicante ma si lascia trasportare nel turbinio di emozioni adolescenziali, vivendole con il protagonista.

Film come CBYN hanno il merito di ricordarci che l’unica cosa che conta, e che può aiutarci ad essere individui consapevoli e migliori, è l’apertura e il rispetto verso gli altri; anche solo per questo CBYN dovrebbe essere utilizzato come spunto di riflessione dalle famiglie, dalle scuole e dai ragazzi.

Credo, dunque, che il film di Guadagnino non voglia dirci che bisogna essere ricchi per essere liberi, quanto piuttosto che per essere liberi di essere chi si vuole bisogna essere aperti. E’ questa, a mio avviso, la più importante lezione che ci trasmette Guadagnino e da cui, secondo me, possiamo molto imparare.