Genio del marketing, astro nascente della canzone napoletana o rapper d’avanguardia? A Napoli in tanti si interrogano su chi ci sia sotto quel cappuccio calato sulla fronte. Alcuni dicono che sotto quel volto coperto si nasconda Emanuele Cerullo, poeta e scrittore di Scampia, altri ipotizzano un collettivo di artisti napoletani. Personalmente non sono molto incuriosita dal dibattito sulla vera identità del cantante; dai Daft Punk a Elena Ferrante passando per Banksy siamo abituati ad artisti che per le ragioni più svariate non vogliono svelare la propria identità. D’altronde credo che il contenuto delle produzioni artistiche ci sveli chi siano questi artisti molto di più di quanto farebbero un nome e un cognome.

Infatti è stato per il contenuto dei testi, per la cifra stilistica delle canzoni e per la scelta delle immagini utilizzate nei  video per rappresentare Napoli che mi sono iniziata ad interessare al “fenomeno” Liberato. Una questione tutta napoletana che ha trovato conferma il 9 Maggio 2018 quando circa 20.000 ragazzi si sono radunati sul lungomare di Napoli per assistere ad un concerto gratuito organizzato dal cantante per celebrare la sua prima canzone (“9 Maggio”, appunto) e cantare tutte le altre, sei in tutto.

Lo spettacolo è stato breve ma sicuramente intenso, sia per la spontanea e genuina partecipazione da parte di un pubblico eterogeneo sotto diversi punti di vista, sia per la quantità di tematiche su cui mi ha portato a riflettere. I punti principali che mi hanno incuriosito sono stati due ed entrambi legati alla capacità di Liberato di mettere insieme cose, generi e persone diverse tra loro con grande semplicità.

“Baby tell me why Je te vogli ben assaj”

Partiamo dalla sua musica, quello che ad un primo ascolto potrebbe sembrare rap napoletano, è invece qualcosa di più complesso. Sono frequenti nelle sue canzoni riferimenti alla tradizione della canzone napoletana (“Te voglio bene assaje” come l’originale di Roberto Sacco del 1835; “Pierd o suonn e  a fantasia” in riferimento a “Dicintencello vuye” del 1930 di Fusco-Falvo oppure il cameo alla “telefonata” o al “triangolo amoroso”, classici escamotage usati dalla tradizione neomelodica da Merola a Nino D’angelo) che in chiave moderna incontrano la musica trap, sottogenere del hip-hop nato, non a caso, nel Sud degli Stati Uniti. Anche la lingua diventa un momento di unione visto che nei testi napoletano e inglese si completano e si sostituiscono, contaminandosi a vicenda senza passare per la mediazione dell’italiano. Liberato segue quindi la consolidata tradizione dello scambio musicale della canzone napoletana, da James Senese agli Almamegretta passando per Pino Daniele, a cui non stupisce sia stato dedicato l’unico omaggio del concerto.

Così come la musica di Liberato nasce dall’ incontro di lingue e rappresentazioni diverse, anche il suo pubblico è fortemente caratterizzato dall’eterogeneità. Lo spettacolo ha richiamato giovani e giovanissimi provenienti da tutta la città. E’ difficile da spiegare ma la percezione avuta all’evento è stata quella che giovani, meno giovani, diplomandi, laureati e professionisti si siano ritrovati insieme, ugualmente partecipi al concerto condividendo un momento che ha cancellato le differenze di età, di reddito, di formazione o altro.

L’idea che mi sono fatta per spiegare l’abilità di Liberato di arrivare ad un pubblico così trasversale è che attraverso i testi, e anche attraverso i video delle canzoni, riesce a cogliere la continua fluidità a cui è abituato chi vive a Napoli in modo tale che chiunque lo ascolti riesca a ritrovare qualcosa in cui riconoscersi.

Napoli, al contrario di città in cui la divisione centro/periferia è molto forte, è strutturata in modo tale che ogni quartiere contiene intrinsecamente e spontaneamente elementi di centralità e altri di periferia. Il fatto che Liberato racconti e faccia emergere questo elemento nelle canzoni genera una sensazione di appartenenza che da un lato, gli permette di raccogliere consensi da Ponticelli a Posillipo, ma dall’altro gli fa raccontare una profonda verità insita nel carattere e nella struttura della città non sempre raccontata: cioè che non ci sono nette divisioni imposte dal contesto urbano.

Se si guardano i video di Liberato, i luoghi frequentati dai protagonisti sono tutti ugualmente accessibili. Il testo fa emergere grande familiarità indifferentemente con Piazza Mercato, Marechiaro, Forcella, Via Petrarca, Nisida e Mergellina, a prescindere se si tratti di zone più o meno ricche, ed è chiaro che la città non è quindi un luogo di separazione.  Al contrario, la stessa fluidità si nota a livello di relazioni;  i due adolescenti protagonisti della trilogia -Tu t’è scurdat’ ’e me, Je te voglio bene assaje, Intostreet- pur vivendo in contesti diversi, non solo hanno una storia d’amore ma frequentano anche gli stessi luoghi e gli stessi spazi.

Questo dato non è irrilevante, al contrario è una caratteristica della città centrale nella cultura dei napoletani abituati, come detto, a confrontare centro e periferia anche all’interno di un solo quartiere. Questa connotazione fa si che l’elemento di centralità non appartenga solo a chi vive nel cuore della città così come la periferia non è necessariamente distante e quindi pregna di quell’immaginario negativo che la vuole luogo di esclusione.

Liberato è quindi capace di raccontare la continua fluidità di Napoli nella sua complessità, descrivendo attraverso musica, immagini e anche attraverso l’utilizzo combinato di napoletano e inglese, l’idea della convivenza di realtà differenti, nella maggior parte dei casi, senza conflitto.

E’ per questo che 20.000 persone lo hanno ascoltato, lo hanno applaudito e poi sono tornate a casa cantando un po’ in napoletano e un po’ in inglese, alcune nelle periferie del centro, altre nel centro delle periferie ma poco importa..l’indomani saranno già in moto per raggiungere altri luoghi, ugualmente familiari e ugualmente accoglienti.