La 70° edizione del festival di Sanremo e la 92° edizione degli Oscar, principali manifestazioni di costume nei rispettivi paesi andate in onda quest’anno nel corso della stessa settimana, hanno lasciato spazio a qualche riflessione. Entrambe, infatti, sono state accomunate da un tema che abbiamo parzialmente già affrontato (link qui) e che merita un approfondimento: l’empowerment femminile veicolato attraverso il racconto che ne fa il mondo dello spettacolo.

Non è la prima volta che il mondo dello show biz si erige a baluardo di rivendicazioni sociali e collettive. Si pensi alla richiesta di una equa rappresentanza di attori non bianchi tra i candidati agli Oscar.

Il tema della parità di genere è emerso da tempo; già da qualche anno, infatti, ricorrono messaggi di supporto al diritto di una parità retributiva tra uomini e donne, di rivendicazione all’inclusione di registe donne tra i candidati all’ambito premio o di sostegno al movimento Me Too. La diretta conseguenza è stata il proliferare di molti progetti femminili, tra gli altri, la nascita della casa di produzione di Reese Witherspoon, produttrice della serie tv di successo Big Little Lies.

Anche quest’anno, nel corso della notte degli Oscar, il messaggio è emerso in maniera molto esplicita nel discorso di Sigourney Weaver, Brie Larson e Gal Gadot, le quali hanno giocato sulla possibilità di creare un fight club in cui il perdente avrebbe dovuto rispondere alla retorica domanda tanto amata dei giornalisti “cosa vuol dire essere una donna ad Hollywood”; la questione è poi riaffiorata nei ringraziamenti di Carol Dysinger, premiata per il miglior documentario “Learning to Skateboard in a Warzone (If You’re a Girl), il cui messaggio alle donne è rivendicare il proprio posto nel mondo. In maniera più implicita, la questione di genere è emersa anche nel discorso della vincitrice come migliore attrice non protagonista, Laura Dern, la quale ci ha tenuto ha ringraziare “le sue sorelle e colleghe” , e nel supporto dimostrato da queste ultime alla sua vittoria, ed è stato percepibile nella spontanea complicità del trio al femminile protagonista di “Bombshell”, o ancora, è stato letteralmente visibile sul vestito sartoriale di Natalie Portman su cui sono stati ricamati i nomi delle registe donne escluse dagli Oscar. Insomma, anche il non detto sembra voler ribadire che le donne di Hollywood sono compatte e sono unite nel combattere le stesse battaglie e, onestamente, il messaggio implicito mi è parso anche più forte degli statement espliciti.

Al contempo, anche negli ambienti nostrani si è affrontata la stessa tematica, seppur in maniera più confusa alternando il tema della lotta alla violenza sulle donne, alla necessità di fare squadra,  alla rivendicazione di ruoli che non rileghino le stesse “in seconda fila”.

Come accaduto agli Oscar, anche a Sanremo, alcuni temi sulla “questione di genere” sono stati trattati in maniera esplicita (anche se alcuni in maniera meno riuscita di altri) è il caso dei monologhi di Diletta Leotta, Rula Jabral e di Laura Chimenti; e altri in maniera più implicita, come ad esempio per il tramite della complicità del trio Levante, Michielin e Maria Antonietta, oppure grazie alla comparsa del gruppo formato da 7 grandi cantanti italiane, che hanno pubblicizzato un concerto di raccolta fondi, “una nessuna centomila”, per combattere la violenza sulle donne.

Sia nel caso del Festival di Sanremo, sia nel caso della notte degli Oscar, ho trovato più efficace e in linea con un discorso di empowerment femminile tutte quelle manifestazioni non stucchevoli ma spontanee che hanno dato una prova tangibile del concetto di emancipazione femminile.

Mi riferisco ad esempio, alla capacità della conduttrice Alketa Vejsiu di esprimere la propria professionalità sul palco dell’Ariston con grande disinvoltura, piuttosto che all’inutile posizione della organizzazione del Festival di affiancare al presentatore tante donne a cui non è stato riservato spazio e visibilità sufficiente per lasciarle libere di condurre la kermesse.

Ugualmente, alla notte degli Oscar, mi è sembrato più convincente e stimolante assistere alla prova evidente di come una donna possa fare carriera e supportare le altre donne, come nel caso di Laura Dern, piuttosto che ascoltare un dialogo trito e ritrito– come quello fatto da Weaver, Larson e Gadot -che finisce per risultare ripetitivo e noioso.

In altre parole, dati gli innumerevoli esempi di capacità e professionalità femminile, almeno il mondo dello spettacolo potrebbe smettere di adottare un approccio del tipo “quote rosa” e implementare processi che mettano in risalto la compagine femminile. Nel 2020, abbiamo ancora bisogno di ascoltare ancora così tante parole vuote in questi consessi?

Il punto centrale, però, è che in questo caso non basta parlare della questione affinché questa assuma di forza e vigore. Al contrario, temo che se tutti parlano del tema, in ogni sede e senza alcun titolo per farlo, la questione stessa viene neutralizzata e diluita. Viene resa impotente ed inefficace e, di fatto, inutile ai fini di un discorso sulla parità di genere che sia funzionale e propedeutico ad un vero processo di empowerment.

N.B: Per approfondire il tema del gender washing e la riduzione del messaggio femminista, segnaliamo qui un link a un lavoro di una ricercatrice esperta del tema, Lilia Giugni del Think Thank GenPol