Si è da poco conclusa l’ultima stagione di Gomorra, serie tv tratta dal romanzo di Roberto Saviano.
La serie è formata da quattro stagioni per un totale di 48 episodi in cui le dinamiche dei clan di Camorra si intrecciano con le storie dei protagonisti, con dinamiche locali, nazionali e anche internazionali. La serie ha negli anni raggiunto un importante successo di pubblico, sia in Italia che all’estero, e vanta un nutrito gruppo di fan; tuttavia è anche stata oggetto di una discussione accesa, legata principalmente a due aspetti.
La prima critica mossa dal pubblico imputa a Gomorra di essere un esempio negativo, soprattutto per giovani e giovanissimi che vivono in contesti simili a quelli descritti dalla serie. Secondo quanti condividono questa opinione, il racconto della camorra attraverso la serie è veicolato in modo che questa sia percepita, seppure come qualcosa di cruento e violento, ma comunque di “mitologico”, facendo sì che i personaggi siano presi ad esempio creando delle dinamiche di impersonificazione ed emulazione, soprattutto facendo leva su ragazzi giovani che hanno un legame con contesti periferici in cui il crimine organizzato è un fenomeno familiare.
La camorra viene in qualche modo “normalizzata” e resa affascinante. Non è un caso che nei periodi successivi alle uscite delle varie stagioni si vedano in giro per i vicoli di Napoli ragazzi con tagli di capelli “alla Genny Savastano” o vestiti come “Sangue Blu”.
Il problema però non è circoscritto solo all’impatto, comunque grave, sui più giovani. L’altra critica che viene spesso avanzata riguarda il racconto parziale che si fa della città di Napoli, mettendo in luce solo la pericolosità e la gravità dei fatti di Camorra, che devono essere raccontati, ma che andrebbero anche contestualizzati all’interno di una visione più ampia di una città che da anni è impegnata a combattere il male che la affligge. Questo consentirebbe di dare maggiore possibilità al pubblico di comprendere il fenomeno e anche le complessità che ne derivano.
A questo punto bisogna infatti ammettere che il racconto è sempre talmente sbilanciato e convincente che ci si chiede cosa penseranno mai all’estero, ma anche semplicemente da Roma in su, sulla città, se il racconto che se ne fa è sempre così tranchant da non far mai sperare in un barlume di giustizia e legalità. La camorra sembra infatti l’unica realtà possibile, l’unica determinante delle dinamiche territoriali, come se le istituzioni, le associazioni di lotta alla camorra o una cittadinanza attiva e coscienziosa non esistessero.
(SPOILER ALERT!!!)
Giusto per fare qualche esempio, la quarta stagione da poco conclusa ci ha dato la riprova di come sia irrilevante il ruolo delle istituzioni e addirittura quanto sia molto più affascinante il mondo del crimine piuttosto che delle persone perbene.
Diciamo, innanzitutto, che nella quarta stagione persiste un’inquietante assenza delle forze dell’ordine. I clan agiscono indisturbati da Secondigliano al centro di Napoli senza che siano mai soggetti a nessun incontro con le forze di polizia. Gli unici momenti in cui queste entrano in azione sono, nel primo caso corrotte, nel secondo caso intervengono unicamente su segnalazione del sistema stesso ed, infine, talmente incapaci da non riuscire a proteggere Patrizia, diventata collaboratrice di giustizia.
La stessa figura del magistrato viene rappresentata come un individuo che sembra avercela personalmente con Gennaro Savastano, non essendo mosso da quelle caratteristiche di imparzialità e giustizia insite nella sua funzione, portando dunque lo spettatore a patteggiare per la camorra piuttosto che per il magistrato stesso.
Ma il racconto non penalizza solo il sistema giudiziario, anche la società civile non ne esce meglio.
I “non affiliati” che compaiono nella quarta stagione sono comunque soggetti mediocri che non ce l’avrebbero mai fatta se la camorra non li avesse in qualche modo aiutati. L’imprenditore con i debiti, la manager napoletana che prende in carico l’aeroporto, ma anche il padre di famiglia che accetta i soldi di Savastano cedendogli i propri terreni, sono colpevoli o per colpe pregresse (per esempio il padre di famiglia ha egli stesso riversato sostanze tossiche nella terra dei fuochi) o comunque per essere conniventi con il sistema. Sembra quindi che nel racconto non sia possibile che i personaggi si oppongano, o quantomeno resistano al sistema, tutti si piegano. Lo stesso Gennaro Savastano, alla fine della quarta stagione, non riuscendo a ricostruirsi una vita “legale” torna ad essere il boss di Secondigliano.
E’ dunque questa l’unica realtà possibile? Una realtà in cui chi ce la fa è in un modo o nell’altro aiutato dal sistema? Una società in cui anche la manager o l’imprenditore parlano solo un napoletano strettissimo, sguaiato, tale da richiedere i sottotitoli? Una città fatta di parcheggi sotterranei e luoghi sporchi e degradati?
Ovviamente no…lo sappiamo bene.
Allora, la soluzione dovrebbe essere quella di sforzarsi di inserire Gomorra in un genere, per esempio “thriller” oppure “gangster movie” piuttosto che farlo passare per il racconto di un territorio. Perché il racconto che se ne fa non è veritiero, è assolutamente parziale, e rischia sempre di creare un immaginario che comporta la formazione di false opinioni, rafforzo di stereotipi e anche effetti negativi in termini di turismo e percezione della sicurezza.
Se Gomorra, invece, vuole raccontare un territorio per far parlare di queste dinamiche affinché siano più visibili e quindi più facili da combattere va bene, ma allora occorre un cambio di registro e occorre una maggiore onestà nello spiegare che la lotta non è tra la “Chanel” e “O’Crazy” di turno, ma tra l’illegalità e la legalità, dove quest’ ultima è sostenuta da centinaia e centinaia di coraggiosi volontari, componenti delle forze dell’ordine, magistrati e professionisti che ogni giorno sfidano la camorra e lo fanno sulla loro pelle e nelle loro strade.