Il Censimento dei radical Chic è un romanzo scritto da Giacomo Papi. Nella sua leggerezza, il libro parla di populismo e della necessità di semplificare il più possibile tutto ciò che ci riguarda come individui e come cittadini: la lingua italiana, i processi decisionali, le idee politiche, le istanze della popolazione e molto altro. La complessità è qualcosa di difficile e dannoso, un astruso marchingegno costruito ad arte per escludere una buona fetta della popolazione dai ragionamenti più aulici. Il fine ultimo è semplificare, abbassare il livello, rendere a tutti comprensibile anche il più arguto dei discorsi, con l’immediato risultato che il tutto si trasformi pericolosamente nella peggiore delle ovvietà o nella più dannosa delle contrapposizioni.

Il tutto succede in Italia, ça can sans dire, in cui un Ministro dell’Interno che è anche Primo Ministro, sostiene questo sentimento che sembra provenire dai ceti più modesti della popolazione e lo cavalca attraverso un’opera di propaganda e strategie atte ad esacerbare i sentimenti di odio verso “l’altro”. L’altro può assumere varie forme, nel libro si apprende che prima il bersaglio sono stati i clandestini, i rom, adesso “l’altro” ha trovato una imprecisa identificazione nella figura dell’intellettuale. Imprecisa perché i segni caratteristici sono molteplici; il più grave ed esemplare è sicuramente il possesso di libri, ma anche l’acquisto di pullover di cachemire non depone a favore del malcapitato.

Gli intellettuali, colpevoli di adoperare un linguaggio forbito, di citare filosofi, di tracciare una linea Maginot tra loro e il mondo reale, sono sotto attacco. Presi di mira da gruppi ignoti che puntano ad eliminarli, la misura del governo al fine di proteggerli, è creare un ambiguo registro che li schedi e li utilizzi all’occorrenza come animali impagliati in un anacronistico museo della cultura. Poi accadono alcune cose…ma meglio leggerle nel libro.

Il punto è il seguente: è chiaro che nel libro, seppur attraverso una fantasiosa elaborazione, troviamo molti riferimenti che riguardano da vicino la vita politica e civile del nostro paese. Fin dalle prime pagine si assiste al politico che sfrutta il momento senza temere l’aggravarsi della situazione, alla gente arrabbiata che attacca “la casta”, al montare dell’odio verso gli intellettuali, ma anche agli intellettuali rinchiusi nei loro attici, incapaci realmente di instaurare un dibattito, di capire le istanze, andare a fondo nel cuore del problema. Non è un caso che la polizia scoprirà che l’intellettuale Giovanni Prospero aveva trascorso gli ultimi mesi ad attaccare il “popolo del web” per la sua ignoranza e invocando il suffragio parziale per “pochi ma buoni”.

Il libro può dare alcuni spunti di riflessione interessanti se invece di focalizzarsi unicamente sugli aspetti più meschini del populismo, si prendono anche in considerazione gli effetti devastanti dovuti alla mancanza di dialogo e all’incancrenirsi della contrapposizione, tutt’altro costruttiva, fatta di “establishment” contro “fascisti”.

La più pericolosa delle semplificazioni, quella che crea dei solchi insormontabili colpa della propaganda, sicuramente, ma anche dovuta ad una parte di quella intellighèntzia che si è appiattita allo storytelling dei talk show, più occupata a difendersi, o ad avvallare una parte politica, che a capire le motivazioni e ad interrogarsi su eventuali soluzioni.

Se la semplificazione, come strumento populista di appiattimento del dibattito, è la peggiore delle armi, la più potente delle contromisure dovrebbe essere la funziona propria dell’intellettuale, “studiare e insegnare”[1], innalzare la discussione, con gli strumenti cognitivi del mestiere, e mi riferisco alla capacità di citare Spinosa o Marx, piuttosto che saper declinare a memoria le proprietà della quinoa. Temo però che se un censimento degli intellettuali, degni di questo nome, venisse realmente condotto, ahimè non se ne troverebbero molti.

“È un luogo comune. Ebbene, a questo punto mi farò definitivamente ridere dietro dicendo che responsabili di queste stragi siamo anche noi progressisti, antifascisti, uomini di sinistra. Infatti in tutti questi anni non abbiamo fatto nulla:

  1. perché parlare di « Strage di Stato » non divenisse un luogo comune, e tutto si fermasse lì; 
  2. (e più grave) non abbiamo fatto nulla perché i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l’indignazione più tranquilla era la coscienza. 

In realtà ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti, e di fronte a questa decisione del loro destino non ci fosse niente da fare. E non nascondiamocelo: tutti sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale: sarebbe bastata forse una sola parola perché ciò non accadesse. Ma nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla, e si sono gettati a capofitto nell’orrenda avventura per semplice disperazione. Ma non potevamo distinguerli dagli altri (non dico dagli altri estremisti: ma da tutti gli altri). È questa la nostra spaventosa giustificazione”. Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera, 24 Giugno 1974. Il Potere senza volto.


[1] Secondo la definizione del protagonista del libro Giovanni Prospero.