In un famoso libro del 1991 Benedict Anderson definisce le nazioni come comunità immaginate, dove la componente immaginifica e della fantasia gioca un ruolo essenziale per la creazione di comunità nazionali. Secondo Anderson “è immaginata ogni comunità più grande di un villaggio primordiale dove tutti si conoscono, e forse lo è anch’esso ( ). È immaginata in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità” (Anderson, ed. 1996, p. 25).

Negli ultimi anni, nel mondo che conoscevamo, il proliferare dei partiti populisti ci aveva abituato a un esasperato nazionalismo – inteso come esaltazione del concetto di nazione e della propria patria, dove l’immagine dell’essere comunità veniva costruita continuamente ed esclusivamente “per differenza”. Nel caso italiano, il discorso dei principali partiti populisti di destra, quotidianamente rimbalzato su tutti i principali mezzi di comunicazione, proponeva una identità nazionale costruita su una contrapposizione tra “noi” e “loro”: la retorica del “prima gli italiani” e dei porti chiusi, dei valori cristiani e della famiglia tradizionale, del popolo contro le élite, dell’Italia contro i burocrati europei, stimolava e nutriva uno spirito di appartenenza nazionale costruito sulla identificazione di un “diverso” minaccioso, di un “nemico”.

Uno dei molteplici effetti imprevisti e travolgenti del Coronavirus, e delle misure straordinarie che sono state prese per il suo contenimento, è stato il recupero di un diverso immaginario dominante sul nostro essere “popolo” e “nazione”. Il 18 marzo, in occasione delle celebrazioni per il 159° anniversario dell’Unità d’Italia, si leggeva sul sito del Quirinale: “Si celebra in tutta Italia la giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera. Nel rispetto delle norme di sicurezza per l’emergenza sanitaria la Presidenza della Repubblica ha annullato le previste cerimonie pubbliche. Il clima di difficoltà, di incertezza e di sofferenza che stiamo vivendo rende ancora più stringente la necessità di unità sostanziale di tutti i cittadini attorno ai valori costituzionali e ai simboli repubblicani”.

La bandiera italiana illumina da allora Palazzo Chigi, e altri palazzi pubblici del nostro paese hanno seguito questo esempio nei giorni successivi. “Uniti ce la faremo” è l’invito proposto dal Premier Conte in occasione della comunicazione delle sempre più drastiche misure di contenimento del virus. Solidarietà, senso di comunità e collaborazione sono ingredienti necessari per affrontare l’emergenza in atto, e anche per portare avanti le misure restrittive della libera circolazione, basate in misura sostanziale sul senso di responsabilità e sull’impegno individuale. Il Presidente Mattarella, nel suo discorso del 27 marzo, ha espresso la riconoscenza della Repubblica verso coloro che per tutti noi mantengono in funzione i servizi essenziali, gli scienziati, rivolgendosi a “chi sta fronteggiando la malattia con instancabile abnegazione”. Ha definito “il senso di responsabilità dei cittadini la risorsa più importante su cui può contare uno stato democratico in momenti come quello che stiamo vivendo”, sottolineando che “la risposta collettiva che il popolo italiano sta dando all’emergenza è oggetto di ammirazione anche all’estero”. Il 28 marzo, il Presidente Conte ha varato una serie di misure di sostegno economico ai cittadini, sottolineando “a chi soffre dico che lo Stato c’è”.

L’emergenza e la sua narrazione hanno stimolato nelle persone un nuovo senso di appartenenza nazionale, visibile soprattutto nei primi giorni dell’emergenza, quando ancora l’Italia era l’unico paese occidentale travolto dalla crisi e dalle conseguenti misure di contenimento. Le persone hanno risposto a questo richiamo all’unità affacciandosi ai balconi, sventolando bandiere e cantando alla finestra l’inno nazionale. La bandiera, l’inno, i simboli più classici della nazione, sino a quel momento rimasti sostanzialmente dimenticati o – peggio – usati come armi contro un nemico (più o meno) immaginario, si sono di nuovo riempiti di un significato positivo, e le immagini dell’Italia sono rimbalzate in tutto il mondo scatenando un’ondata di solidarietà verso il nostro paese (inclusi i principali palazzi del mondo illuminati dal tricolore).

A ben guardare, tuttavia, questa lettura “positiva” ha acquisito maggiore spazio nei mezzi di comunicazione e forse nel nostro sentire, ma la celebrazione del nostro essere “nazione” e “comunità” continua a nutrirsi di spinte piuttosto diverse tra loro. E così, accanto alla gratitudine per chi è “in prima linea” e al moltiplicarsi dei gesti spontanei di solidarietà per affrontare gli effetti della crisi sanitaria ed economica, continuano a proliferare gli odiatori da tastiera. Accanto ai richiami all’unità politica c’è chi continua a nutrire un clima da campagna elettorale permanente. Accanto alla celebrazione della fratellanza fra popoli, c’è chi fomenta l’odio per “l’altro”, insinuando complotti e identificando colpevoli.

Il ritrovato senso di comunità, o un rinnovato modo di immaginarci, è stato celebrato da alcuni osservatori come uno degli effetti collaterali positivi del virus, dal quale sarà possibile ripartire con una nuova consapevolezza e una nuova fratellanza una volta passato tutto questo. Altri sottolineano come il virus, che non conosce confini o razze, ci stia insegnando quanto sia umano fuggire quando si ha paura, che sia dal conflitto siriano o dalle zone rosse del virus con un assalto notturno alle stazioni. Ma affinché questo avvenga, è necessario che la rinnovata celebrazione della nazione costituisca la base per una solidarietà e compassione tra esseri umani, e non si trasformi di nuovo in nazionalismo, esclusione, chiusura. Vigilare e contribuire alla definizione di questo domani è un compito che possiamo iniziare a svolgere anche in questo lungo isolamento forzato.