La scorsa settimana, al Teatro Vascello di Roma, è stato possibile (ri)vedere PENG, adattamento italiano dell’opera di Marius von Mayenburg, che lo scorso anno (sempre al Vascello) aveva inaugurato la stagione ed è ora in tournée per l’Italia. L’opera è stata scritta dal drammaturgo nel 2016, all’indomani della vittoria elettorale di Trump negli Stati Uniti, e racconta la storia di un bambino molto particolare (Ralf Peng), che dopo aver strangolato la sorella gemella nel grembo materno perché aveva osato pensare di nascere prima di lui, cresce odiando le donne e desiderando di comandare nel (suo) mondo. L’occasione arriva quando, a cinque anni, Ralf può ingaggiare una tesa campagna elettorale con la sua egocentrica madre, trasmessa in mondovisione grazie al reality show che segue la vita dei Peng in una sorta di “Truman Show” consapevole. Il divertimento puro che lo spettacolo è in grado di generare è a servizio di una crescente amarezza, che deriva dal sentire quanto i personaggi esasperino dinamiche che sono componenti essenziali del mondo che ci circonda.

Peng è un’opera potente e pienamente contemporanea, che in meno di due ore riesce a evocare una serie di nodi che fanno da sfondo al nostro vivere quotidiano: il rapporto tra verità e rappresentazione, il peso dell’immagine,  l’ipocrisia dietro al politically correct, la paternità/maternità piegata a figli eletti a tiranni, la sete di potere, la misoginia, il voyeurismo, l’esibizionismo,  il nichilismo, il maschilismo, il populismo, e, soprattutto, il capitalismo, come modo di vivere e attitudine al vendere (e vendersi) come scopo ultimo e motore dell’azione degli individui. Il richiamo agli Stati Uniti e a Trump è particolarmente visibile in alcuni riferimenti (la normalizzazione dell’uso delle armi, ma anche la scelta di un protagonista bambino che incespica sulle parole), ma PENG restituisce senza sconti l’immagine esasperata di una società che è anche la nostra. 

Tra i diversi ingredienti dell’efficacia di questa rappresentazione – a cominciare dalle interpretazioni degli attori – e tra i tanti spunti che si potrebbero cogliere, quello che mi interessa di più sottolineare (per deformazione professionale) è il ruolo giocato dall’uso dello spazio. La casa dei Peng è la metafora del mondo che Ralf vuole dominare. Un mondo che viene vandalizzato e turbato in modo sempre più evidente man mano che procede lo spettacolo, nella totale incuria dei suoi abitanti. La casa è nettamente divisa tra i luoghi della famiglia, in cui si consumano Kefir e cibi biologici (e in cui Ralf può vessare la sua baby sitter), e la cantina (che al pubblico viene solo evocata), in cui la madre accoglie donne maltrattate fino a quando Ralf decide che non si può più fare. Perché, nonostante siano in cantina, accogliere persone in casa toglie attenzione e risorse a lui; e perché Ralf suggerisce quanto possano essere pericolose, da sole in cantina, queste persone lasciate libere di circolare vicino all’allaccio del gas e dell’acqua… Così, per impedire il perpetrarsi di questa minaccia per la sopravvivenza stessa della famiglia Peng, Ralf decide di proteggere i confini (del suo mondo) puntando la pistola contro la porta di ingresso, pronto a colpire chiunque osi attraversarla; salvo poi abbassare repentinamente l’arma quando a bussare alla porta non è un indesiderato/a bisognoso/a, ma il vicino di casa con cui il protagonista può condividere sfruttamento e misoginia. Anche a casa Peng, dunque, il confine chiuso e difeso con la forza non è altro che un mito, cui fa da contraltare la realtà di un confine selettivo, deliberatamente chiuso di fronte a determinati flussi e spalancato di fronte ad altri. 

Si è spesso discusso su spaziocult del fatto che le immagini del mondo veicolate dai mezzi di informazione, dai film, dalla musica ecc.  non siano mai solamente rappresentative, ma anche performative: nel riflettere il mondo che le circonda, queste immagini contribuiscono anche a “creare” il mondo, suggerendone interpretazioni e significati. Il mondo di Peng lascia lo spettatore disorientato e disturbato perché risuona con il mondo che lo circonda, esasperandolo, ridicolizzandolo e estremizzandolo, ma in definitiva cogliendone elementi profondi. E stimola quindi una presa di coscienza collettiva rispetto al nostro presente e al nostro futuro. Rispetto a questo, è chiaro che il teatro rimane una esperienza inevitabilmente più “intima” rispetto ad altre, per sua natura limitata nel tempo e nello spazio.  Ma, come già scritto in passato parlando di musica, l’esperienza collettiva e la condivisione di energia tra artisti e pubblico e all’interno dello stesso pubblico hanno una propria potenza specifica e unica, non paragonabile ad altre forme di “fruizione”. Una volta calato il sipario, l’eredità dello spettacolo “dal vivo” rimane a lungo negli spettatori: un patrimonio di riflessioni ed emozioni che diventano bagaglio, accompagnamento e a volte anche motore.