Il sempre ottimo Internazionale nel suo numero del 2/8 dicembre 2022 dedica la copertina ad un articolo tradotto dal The Guardian, a firma di Daniel Immerwahr, professore di storia alla Northwestern University negli Stati Uniti. L’articolo, accompagnato dall’immagine di un mappamondo che racchiude un uccellino in gabbia, si interroga sull’opportunità della tendenza a considerare ineluttabili una serie di fatti politici e geopolitici sulla base delle caratteristiche fisiche del territorio, enfatizzando d’altro canto la continua evoluzione del contesto, che  – anche volendo credere ad una sua influenza sui fatti –  non è fisso né immutabile.

Senza voler entrare nel merito delle tesi proposte dall’articolo, quello che si vuole discutere (e contestare!) in queste righe è l’uso che viene fatto del termine geopolitica. Già nella copertina si legge che “Per gli esperti di geopolitica le relazioni internazionali sono sempre condizionate dalle caratteristiche geografiche dei paesi”. Nel testo questa idea viene riproposta con più forza “Spesso il termine (geopolitica, ndr) è usato in senso ampio come sinonimo di ‘relazioni internazionali’, ma più nello specifico si riferisce alla concezione secondo cui la geografia – montagne, lingue di terra, falde acquifere – governa gli affari del mondo” (p. 46).

Due precisazioni mi sembrano necessarie. La prima: la definizione fornita non corrisponde tanto alla geopolitica quanto al geodeterminismo, una linea di pensiero secondo cui le azioni e decisioni politiche si presentano come determinate, inevitabilmente, dalla collocazione geografica o ambientale. Secondo questa visione, l’azione politica risulta da «leggi naturali» e quindi, di fatto, non da decisioni prese dai governanti.

La seconda: esiste, in effetti, una grossa fetta di geopolitica – la cosiddetta geopolitica classica – nel cui ambito il geodeterminismo gode di una certa popolarità. Sebbene il termine geopolitica sia stato coniato solo nel 1899 (da Rudolf Kjellen) si tratta di un approccio nato all’epoca delle grandi esplorazioni, a partire dal desiderio e dal bisogno di conoscere il mondo ma anche di etichettare le sue parti. La geopolitica classica reclama obiettività, ma è per lo più al servizio dello Stato; tanto è vero che è praticata da analisti governativi, più che da accademici. Analisti che godono di una posizione privilegiata: sono prevalentemente uomini, bianchi, appartenenti all’élite occidentale. Usano spesso frasi ad effetto per conquistare il pubblico e verità universali per giustificare le scelte di politica estera. Guardano esclusivamente agli Stati, considerati di fatto come gli unici attori in gioco. E semplificano drammaticamente il mondo, dandoci l’illusione di poterlo comprendere e di poter agevolmente prevedere il futuro.

Se è vero che questa geopolitica è viva e vegeta e anche molto diffusa, è sbagliato però ritenere che esaurisca il significato del termine. Anzi, la ragione per la quale ne conosciamo bene vizi e virtù è perché, a partire dagli anni novanta del secolo scorso, si è sviluppato un nuovo approccio – la cosiddetta geopolitica critica – che mira ad analizzare criticamente il focus e il linguaggio delle dichiarazioni politiche, delle carte, dei media, per identificare quale sia il discorso soggiacente e dunque quale la rappresentazione del mondo che ne deriva. Si è sviluppata così in ambito accademico una nuova generazione di geopolitici (critici), che hanno reso espliciti i condizionamenti e l’agenda politica di alcuni geopolitici del passato. Questi studiosi ci hanno mostrato come il pensiero geopolitico si sia fondato per decenni sull’orientalismo, o sulla rappresentazione dell’altro (non-occidentale) come primitivo, e arretrato; e ci hanno fatto capire come queste rappresentazioni siano state talmente pervasive da essere date per scontate, tanto da giustificare qualsiasi tipo di azione, perché basata su una certa concezione del mondo.

A questo filone, a partire dagli anni 2000, si è affiancato quello della geopolitica femminista, che non si limita ad un approccio di analisi critica ma propone un’attenzione alla complessità delle posizioni delle persone: la geopolitica femminista ci dice che non possiamo comprendere il mondo nel modo della geopolitica classica, ma neanche semplicemente criticando questa prospettiva come fa la geopolitica critica; dobbiamo comprendere cosa vuol dire essere un certo individuo in un certo contesto per capire in che modo la politica opera. In altre parole dobbiamo entrare nell’aspetto quotidiano, intimo ed emozionale della geopolitica.

Come risulta evidente da questa sommaria ricostruzione, questi approcci sono molto lontani dalla geopolitica classica. Puntano alle contraddizioni e all’ambiguità del nostro presente, e non alla sua semplificazione. Riconoscono come attore geopolitico chiunque persegua una strategia, e non solamente gli Stati. Non offrono soluzioni facili, ma proprio per questo forniscono strumenti di difficile ma reale comprensione al posto di una rassicurante ma illusoria rappresentazione. Probabilmente è proprio la loro complessità che li rende almeno ad un primo sguardo meno attraenti, e complessivamente molto meno conosciuti. Tuttavia etichettare tutta la geopolitica e tutti gli esperti di geopolitica come geopolitici classici, come fa l’articolo in copertina di Internazionale, è desolante per chi di questa disciplina si occupa. Vuol dire azzerare trent’anni di un dibattito vivo e vivace, che se non ha la pretesa di offrire previsioni e soluzioni, è però utilissimo per muoversi e orientarsi nella complessità del mondo. Qualcosa di cui abbiamo tutti disperatamente bisogno.

Per saperne di più (in inglese):

Klaus Dodds, Geopolitics. A very short introduction

Colin Flint, Introduction to Geopolitics

https://www.criticalgeopolitics.com/

www.exploringgeopolitics.org